mercoledì 21 marzo 2012

Universo donna: cambia in meglio, ma non abbastanza

Il “faro” di Bankitalia, Istat, Inps e Isfol agli “ Stati generali del lavoro femminile” organizzati dal Cnel
La presenza delle donne nel mondo del lavoro è profondamente cambiata negli ultimi vent’anni: sono aumentate le donne che lavorano, è migliorata la qualità del loro lavoro ed anche il modello culturale è mutato a favore di una maggiore presenza femminile nel mondo del lavoro.
Pur tuttavia, le discriminazioni di genere fanno decisamente fatica a tramontare: rispetto all’universo lavorativo maschile, ancora importanti permangono le differenze relative ai tassi di occupazione, alle mansioni affidate, agli incarichi ricoperti, al livello retributivo, alla divisione dei carichi di lavoro familiari, alla conciliazione tempo di vita - tempo di lavoro, con le inevitabili conseguenze anche in termini di autostima. Di tutto ciò si è discusso al convegno “Stati Generali del lavoro femminile”, svoltosi al Cnel il 2 febbraio 2012, cui hanno partecipato con proprie relazioni Linda Sabbadini (Istat), Roberta Zizza (Banca d’Italia), Marco Centra (Isfol), Antonietta Mundo (Inps).
In apertura, la relazione dell’Istat ha puntato i riflettori sulle ripercussioni della crisi economica sulla condizione socio-lavorativa delle donne: dopo il considerevole aumento dei tassi di attività registrato dagli anni ’90 fino al 2008, nel biennio successivo l’occupazione femminile è diminuita di 103 mila unità (-1,1%), in particolare:
Tasso di occupazione 2010: 46,1% (ultimi in Europa prima di Malta)
Tasso di disoccupazione femminile maggiore di quello maschile, al contrario dell’Europa (9,7% vs. 7,6% in Italia contro 9,6% per entrambi i generi in Europa)
Il Sud scende al 30,5% contro il 56,1% del Nord
E’ diminuita l’occupazione qualificata (-270 mila) ed è aumentata quella non qualificata (+218 mila)
Nell’industria diminuiscono più le donne (-12,7%) che gli uomini (-6,3%)
Sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale e orizzontale
E’ cresciuto il part-time solo nella componente involontaria (soprattutto nel commercio e ristorazione e nei servizi alle famiglie)
Si è acutizzato il sottoutilizzo del capitale umano. In particolare, tra le giovani (18-29 anni) le laureate sono le più sottoutilizzate: per il 52% svolgono un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto
Perdurano le differenze retributive di genere. La retribuzione netta mensile delle dipendenti è inferiore di circa il 20% a quella degli uomini (nel 2010, 1.096 contro 1.377 euro), anche se il divario si dimezza considerando i soli impieghi a tempo pieno (rispettivamente 1.257 e 1.411 euro). Tra gli occupati full-time, differenze significative permangono per le laureate (1.532 euro rispetto ai 1.929 euro dei maschi).
Aumentano le difficoltà per le donne a rimanere sul mercato del lavoro, in dipendenza di grandi cambiamenti nella vita familiare (maternità, genitori a carico), e si continua a parlare di dimissioni in bianco anche per le ultime generazioni (in netto aumento per le quarantenni). Tutto ciò è funzione dell’asimmetria dei ruoli tra uomo e donna all’interno del contesto familiare, con un sovraccarico di lavoro per le donne pari a 53’ in più rispetto al partner. Parallelamente aumenta il fenomeno delle “nonne sandwich”, schiacciate tra cura dei nipoti, carico di lavoro all’interno della propria famiglia e l’assistenza dei genitori anziani in molti casi non autosufficienti, e carico del loro lavoro extradomestico. Le prospettive sono di aggravamento della situazione in atto in relazione all’aumento della longevità e alla progressiva inadeguatezza dei servizi di welfare, cui sopperiva l’esistenza di reti informali di reciproco aiuto, sostenute soprattutto dalle donne.
Davanti a simile scenario, l’Istat lancia alcuni drammatici interrogativi: “Chi si farà carico dei problemi di cura e dei bisogni dei soggetti più vulnerabili del nostro Paese? Se i servizi sociali non si svilupperanno adeguatamente, come si farà a valorizzare le risorse femminili schiacciate e sovraccaricate dal lavoro di cura?”
La Banca d’Italia riporta tra le cause possibili dei persistenti divari di genere la fecondità: laddove, a livello internazionale si va affermando una relazione positiva (i paesi dove si fanno più figli sono quelli dove più donne lavorano), nel nostro Paese (Del Boca et al. (2000); Bratti et al. (2005); Casadio et al. (2008)) permane una relazione negativa tra maternità e occupazione femminile, cui contribuiscono in materia determinante alcune cause o atteggiamenti culturali. Alcuni dati rilevati dalla ricerca World Value Survey sul tema:
“Quando scarseggia l’occupazione, gli uomini hanno maggiore diritto ad un lavoro rispetto alle donne”.
“Essere una casalinga è appagante quanto un lavoro retribuito”.
“Una formazione universitaria è più importante per un ragazzo che per una ragazza”.
“Gli uomini ricoprono meglio i ruoli di leader politici e di grandi amministratori”.Inoltre, come rileva Ichino et al. (2010), le donne il cui primo figlio è maschio lavorano meno di quelle il cui primo figlio è femmina nella settimana di riferimento. Ciò probabilmente perché un primogenito maschio aumenta la stabilità del matrimonio e la stabilità aumenta la fecondità.
A ridurre significativamente la probabilità per le donne di partecipare al mercato del lavoro, secondo lo studio di Banca d’Italia, intervengono anche fattori come le difficoltà relative al raggiungimento del lavoro (media individui della stessa regione), minore propensione al rischio e fattori difficilmente analizzabili, come l’autostima. Dopo aver rilevato che, pur aumentato, il tasso di attività femminile in Italia è inferiore alla media europea, la Banca d’Italia ha documentato la svolta avvenuta nella relazione tra lavoro e fecondità. Mentre nel 1993 le regioni con il più alto tasso di occupazione (quelle del Nord) erano anche quelle con meno fecondità, nel 2008 si osserva che le stesse regioni del Nord presentano un aumento di tasso di fecondità insieme ad un aumento del tasso di occupazione femminile, ciò che consente a Banca d’Italia di concludere che nel lungo periodo e a parità di altre condizioni, non sembra esservi in Italia un effetto negativo della maternità sull’offerta di lavoro femminile e non esiste, quindi, necessariamente un conflitto tra politiche che incentivino l’una e l’altra. Di fatto, contestualmente agli episodi di maternità, la propensione degli uomini all’occupazione aumenta, mentre quella delle donne diminuisce drasticamente: come afferma l’Isfol, il tasso di attività maschile passa dall’85,6 % al 97,7 % dopo la nascita di un figlio, mentre quello femminile passa bruscamente dal 63 % al 50,3 %. Le donne che abbandonano il lavoro dopo la maternità sono il 40,8%.
Dai dati riportati emerge ancora una volta la stretta relazione tra questi fenomeni e l’inefficienza del sistema di welfare italiano, caratterizzato da una scarsa incidenza di servizi alle famiglie e, in generale, poco incline alla conciliazione vita-lavoro delle donne. E’ l’Isfol questa volta a ribadire che i carichi di lavoro familiari sono ancora prevalentemente gravanti sulle donne: ben il 75% (dati 2008) nonostante un decremento di ben dieci punti percentuali rispetto al 1989, la giornata di lavoro della donna italiana è più lunga di 45 minuti di quella dell’uomo e le sottrae il sonno per 10 minuti più dell’uomo. Anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali le statistiche relative al periodo gennaio-ottobre 2011 rivelano che i datori di lavoro preferiscono mettere in cassa integrazione gli uomini:
Beneficiari Cig ordinaria 17% donne vs 83% uomini;
Beneficiari Cig straordinaria: 34% donne vs 66% uomini;
Beneficiari Cig in Deroga 42% donne vs 58% Meno evidenti le differenze tra percentuali di beneficiari per genere in relazione alla mobilità e alla disoccupazione. Il presidente della seconda Commissione del Cnel, Giuseppe Casadio, che ha coordinato i lavori, dopo aver denunciato, da un lato la doppia discriminazione che subiscono le donne (retributiva e nella tutela dei diritti) e dall’altro la scarsa incidenza delle molteplici elaborazioni sul tema nelle sedi e nei momenti della decisione politica, ha candidato il Cnel a svolgere il ruolo di auditing per verificare l’attuazione delle norme varate dai governi. “Noi ci siamo posti un obiettivo più ambizioso e più concreto - ha affermato Casadio: pensiamo che il CNEL, per la sua intrinseca natura di istituzione della Repubblica e, ad un tempo, di luogo di confronto e sintesi fra le diverse rappresentanze sociali, possa più e meglio di ogni altro luogo, proporsi come sede presso cui svolgere le istruttorie circa la congruità e gli effetti attesi degli atti di governo in fieri sulla fondamentale questione della valorizzazione della risorsa donna sul mercato del lavoro. Pensiamo, altresì, che alla funzione istruttoria possa associarsi quella di “auditing” sugli effetti prodotti da quei provvedimenti”.
( Cnel, febbraio 2012)
Il documento